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Nuovi confini, senza limiti: giochi di parole per le discipline urbane?

F Lo Piccolo

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Settore ICAR/21 - Urbanisticapostmetropoli “nuovi confini urbani” nuove geografie multi-culturali

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Il contributo affronta in chiave critica il tema dei “nuovi confini urbani” in un’epoca priva di limiti spaziali. I riferimenti alla base delle riflessioni si riconducono all’articolata linea di ricerca che problematizza le ricadute spaziali dei fenomeni socio-economici di ristrutturazione della città post-fordista, esito dei processi di globalizzazione, urbanizzazione planetaria e migrazioni internazionali. Tali fenomeni configurano nuove geografie multi-culturali e generano un «mosaico sociale ristrutturato» che è al tempo stesso, rispetto alla scala globale, il risultato dei fenomeni di de-territorializzazione e ri-territorializzazione del capitale, del lavoro e della cultura («cosmopolis») e, rispetto alla scala locale, l’esito di complessi fenomeni di ibridazione e di polarizzazione sociale dello spazio («exopoli»), con ricadute sempre più evidenti sulle città e sui territori («città frattale»). Le trasformazioni socio-spaziali che identificano l’attuale transizione post-metropolitana generano inedite geometrie sociali «de-strutturate» e «disperse», che smentiscono i tradizionali modelli di analisi socio-spaziale e, pertanto, richiedono nuove categorie interpretative per gli strumenti di governo e pianificazione. Al tempo stesso, e paradossalmente, la pervasività della dimensione urbana, e il ruolo che ricopre per una vasta gamma di istituzioni, di organizzazioni, di soggetti e di gruppi, ne smaterializza e confonde ipertroficamente contorni e confini, diventati «confusi in modo inimmaginabile» (Brenner, 2017). La proliferazione dei confini, il loro prismatico scomporsi e ricomporsi, costituisce «l’altro lato della globalizzazione», sia al livello micro degli spazi urbani «quotidiani», sia al livello macro dei flussi globali intercontinentali (Mezzadra, 2004). Sono confini convenzionali e geografici, astratti e reali, che definiscono (e limitano) spazi e fenomeni sociali: confini che mutano frequentemente nello spazio e nel tempo, includendo ed escludendo – di volta in volta – individui e luoghi, per scelta o per necessità. Questo comporta una progressiva riduzione, sostituzione o ri-delimitazione dello spazio pubblico, attraverso forme di privatizzazione, ‘fortificazione’ e commercializzazione; i soggetti più deboli e marginali sono i primi ad essere colpiti da tutto ciò, anche in conseguenza della crisi dei sistemi di welfare state, oggi ancor più indeboliti dalla recessione economica e dalla conseguente necessità degli Stati di ridurre il loro debito pubblico. Ciò avviene in contesti sempre più conflittuali, in cui la paura e l’avversione dell’«altro» tendono ad essere la caratteristica dominante (Bauman, 2014). Questa dimensione dell’avversione e della paura è sempre più tratto ricorrente nell’esercizio delle politiche pubbliche e delle pratiche di pianificazione esercitate in «città della differenza», e riflette una più generale apprensione collettiva, estremamente diffusa e articolata nelle forme che vanno dall’ansia e paura individuale alla manipolazione mediatica ed alla strumentalizzazione politica. La «paura dell’altro» si traduce, in ambito tecnico-disciplinare, o in forme dirette di segregazione/controllo dello spazio (le città fortezza, lo spazio blindato o disagevole, il «rinnovo urbano» come versione aggiornata e politicamente corretta degli interventi di trasformazione igienico-sanitari ottocenteschi) o, in forme meno dirette, attraverso una apparentemente neutrale applicazione di tecniche e pratiche urbanistiche tradizionali e generiche. Nulla di nuovo, per certi versi: la letteratura sullo sviluppo urbano moderno e postmoderno ha ampiamente affrontato questo aspetto, da Michel Foucault a Henri Lefebvre, a partire dal tema della città come meccanismo di esclusione spaziale, sorveglianza e controllo sociale. Ciò che cambia è la rapida moltiplicazione e sovrapposizione di tali fenomeni, a scale e domini differenti, e sovrapposti. Cambiano i ritmi, le velocità, e la natura stessa di confini e domini, con effetti spesso imprevedibili. Le declinazioni spaziali delle nuove «colorazioni urbane» hanno a volte carattere temporaneo o transitorio, ma in taluni ambi e circostanze incidono sulle trasformazioni fisiche di lunga durata ben più, e ben più a lungo, di quanto si possa credere. Questa plurale articolazione di individui e luoghi amplia potenzialmente, e di certo complica, il concetto, ed i relativi confini, del «diritto alla città». Si sviluppano processi sociali inediti che comportano, fra l’altro, la redistribuzione (e la complementare resistenza alla redistribuzione) di beni materiali e immateriali, di diritti e privilegi: dal diritto di cittadinanza al lavoro, dalla casa all’accesso alle risorse sociali e ambientali. In particolare per quel che riguarda i «nuovi arrivati», la rivendicazione del «diritto alla città» molto spesso coincide con la rivendicazione, e salvaguardia, dei diritti umani, per costruire «spazi di sopravvivenza» (Leontidou, 2010). Gli esiti di questi fenomeni se da un lato possono essere letti come elementi di crisi e incancrenirsi di problemi, dall’altro danno vita – in alcuni casi, e in termini comunque problematici – a nuove forme di città e cittadinanza (Lo Piccolo, 2010). Tutto ciò implica una intrinseca difficoltà per le discipline urbane a interpretare – se non per frammenti – i fenomeni, e contribuire, di conseguenza, a definire politiche e azioni che non siano episodiche, inefficaci o meramente repressive. Ciò ha generato, per ritornare a riferirci a Brenner (2017), una sorta di babele analitico-interpretativa» nella quale, «anche in mezzo a innovazioni concettuali produttive, la frammentazione delle realtà urbane nelle pratiche politico-economiche e culturali quotidiane viene replicata in modo relativamente acritico all’interno del campo discorsivo della teoria urbana» (Brenner 2017). La difficoltà, ma al tempo stesso la responsabilità, disciplinare sta nell’evitare che la proliferazione dei confini, oggi sempre più «senza limiti», rimanga solo un ennesimo, estemporaneo, gioco di parole.

http://hdl.handle.net/10447/329868